La trappola. Il meccanismo delle prigioni USA

 

Un’inchiesta rigorosa di “Report”, la trasmissione di indagine giornalistica di RAI 3, ci spiega che all’estero, e soprattutto nei mitici USA, i detenuti sono felici, lavorano,  acquisendo competenze che saranno utili per il loro reinserimento sociale, ristrutturano e abbelliscono le loro prigioni, addirittura, i loro prodotti sono così apprezzati che, quando escono, le aziende fanno a gara per assumerli. Inoltre, nei mitici Usa, i detenuti non costerebbero nulla allo Stato, in quanto il sistema carcerario è basato sulla privatizzazione degli istituti di pena, mentre in Italia pesano sul contribuente (4000 euro al mese per ogni “ospite”). Questa situazione idilliaca, troppo bella per essere vera, si scontra, però, con dati oggettivi che evidenziano il fallimento del modello americano: negli USA le carceri ospitano l’uno per cento della popolazione, vale a dire due milioni e trecentomila individui, una cifra spaventosa! Altro che reinserimento sociale! Nella tanto vituperata Italia la popolazione carceraria resta intorno all’uno per mille, un dato comunque allarmante.

 

 

 

A titolo d’informazione sul modello statunitense, tanto celebrato dalla stampa nostrana, riportiamo alcuni passaggi di un illuminante articolo pubblicato sulla Rete:

«[…] Il meccanismo delle prigioni USA – perverso come ogni meccanismo detentivo, ma più perverso di tutti – è fondato sulla privatizzazione della maggioranza degli istituti di pena; il detenuto viene incentivato (in una prigione vuol dire “costretto”) a lavorare per ottenere sconti di pena (davvero irrisori) ed un salario (fino a poco tempo fa si trattava di ventitré centesimi l’ora) calcolato dopo aver sottratto le spese per la detenzione, eventualmente quelle del processo, e il profitto per l’azienda esterna. Appare evidente che le aziende esterne sgomitino per avere la possibilità di sfruttare operai così docili e così a buon mercato; ma è chiaro anche che da parte della gestione privata della prigione, così come da parte delle aziende “collaboratrici”, non vi è nessun interesse a “reinserire nel sociale” il detenuto; anzi, più ne arrivano, meglio è, con gli ovvi risultati di progressivo aumento della popolazione carceraria. La volontarietà, in un simile contesto, è assolutamente immaginaria; un noto magistrato intervistato da “Report” diceva che chi non lavora in prigione è chiaramente contro lo Stato; insomma il lavoro forzato potrebbe diventare presto una realtà “legalmente” estorta con il terrorismo psicologico, e speriamo solo con quello». (http://www.comidad.org; http://www.corriere.it/inchieste)