EROI DELLA LOTTA CONTRO LA MAFIA

Un elemento che mina la solidità dello stato italiano è lo spazio occupato dalla criminalità organizzata.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno combattuto la mafia, anche grazie alle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta , che svelò i codici , i segreti, la gerarchia militare , i nomi dei capi famiglia della cosiddetta “Cosa Nostra” ovvero la mafia. In quel periodo era in corso una guerra all’ interno di Cosa Nostra e il gruppo dei corleonesi guidato da Totò Riina e Bernardo Provenzano prese il sopravvento sugli altri mafiosi , uccidendo a uno a uno i vari capi famiglia e subentrando nella gestione degli affari illeciti a Palermo  e altrove. Le attività dei corleonesi erano basate sulla strategia del terrore; per attuare questa tattica  utilizzavano il tritolo, i lanciarazzi e un’arma particolare molto potente , il PK47 ovvero il Kalashnikov .

 

La mafia decise di attaccare gli appartenenti alle forze dello stato , in particolare magistrati e membri delle forze dell’ordine. 

Tra tutti gli eroi della lotta contro la mafia è giusto ricordare: il giudice Chinnici, il colonnello dei carabinieri Russo , il capitano dei carabinieri Basile, il giornalista Peppino Impastato che osò sfidare la sua stessa famiglia appartenente alla mafia, il prefetto Generale Capo di Corpo d’ Armata  dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa e infine i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

 

Di particolare importanza è la figura di Carlo Alberto Dalla Chiesa , il quale dopo i successi riportati nella lotta alle Brigate Rosse venne nominato “Super Prefetto “ di Palermo con specifiche competenze nella lotta alla mafia; di fatto però non ottenne tutti i poteri promessi e senza la protezione dei suoi carabinieri il 3 settembre 1982 venne ucciso a colpi di Kalashnikov da un commando guidato da Leoluca Bagarella , uno dei killer più spietati dei corleonesi e cognato di Totò Riina.

 

Giovanni Falcone dopo il maxiprocesso di Palermo, entrato in contrasto con i vertici della procura di Palermo, venne trasferito a Roma facendo passare ciò per una promozione; di fatto questo trasferimento inclinò definitivamente i rapporti all’ interno della procura di Palermo, decapitando lo stato  nella lotta a Cosa Nostra. Ciò avvenne soprattutto perché Totò Riina riuscì ad allacciare attraverso un suo uomo, l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, dei rapporti con alcuni appartenenti alle forze di polizia. Stranamente durante questo periodo di contrattazione con lo stato il 3 gennaio 1993 venne arrestato Totò Riina, l’arresto venne operato dalla sezione CRIMOR di Milano appartenente al ROS dei carabinieri. Cosa Nostra non perse la sua leadership, perché divenne boss Bernardo Provenzano  il quale interruppe la strategia del terrore; egli gestiva la mafia chiedendo ai vari capi famiglia di continuare le attività di estorsione ma senza attirare l’attenzione dello stato. 

 

Questo è scritto nei famosi “pizzini”, che per primi vennero monitorati da un gruppi di uomini della DIA di Genova, tutti carabinieri tranne una poliziotta; essi prestarono servizio infiltrandosi nel territorio siciliano negli anni 1994/1995.  Ciò fu possibile grazie alle dichiarazioni di Luigi Ilardo, il quale era nipote  del capo famiglia di Caltanissetta ovvero Piddu Madonia, che godeva della considerazione dei corleonesi che avevano ucciso il suo predecessore , Giuseppe di Cristina. Per contattarsi tra di loro i mafiosi non usavano ovviamente il telefono, ma adoperavano i cosiddetti “pizzini”, biglietti nei quali i capi famiglia siciliani chiedevano al capo di Cosa Nostra indicazioni su come muoversi nella gestione degli affari illeciti.

 

Ilardo Luigi divenuto, confidente del colonnello dei carabinieri Riccio Michele, prima di spedire le richieste a Provenzano e dopo aver ricevuto le risposte da quest’ultimo consegnava i pizzini agli uomini del colonnello Riccio, i quali eseguirono degli accertamenti in particolare su quanto scritto da Provenzano al fine di procedere alla sua cattura.

 

I movimenti politici dell’epoca tra alti e bassi non permisero a quel gruppo di terminare la missione; il colonnello convinse Ilardo a diventare collaboratore di giustizia e quindi a ufficializzare le informazioni da lui date in precedenza. Purtroppo dopo il primo approccio per eseguire questo passo e quindi dopo che venne svelato ad alcune istituzioni dello stato il nome di Ilardo, il pentito venne ucciso a Catania con 7 colpi di pistola alla schiena. Le dichiarazioni di llardo, registrate dall’ufficiale, vennero descritte alla procura di Palermo e al Pubblico Ministero Dottor Di Matteo , con l’informativa denominata “Grande Oriente”, informativa che venne portata a Palermo da Riccio senza che il suo superiore la volesse firmare.

Il rapporto venne depositato lo stesso e da questo ne scaturì il processo contro il generale dei carabinieri Mario Mori , conosciuto come il processo  contro l’accordo Stato/Mafia.

 

Elemento particolare di questa storia è la volontà di una parte degli appartenenti alle forze di polizia di voler catturare Bernardo Provenzano e la volontà di altri appartenenti alle forze di polizia di non volerlo catturare,

 

Termino ricordando la volontà di Riccio di voler far intervenire i suoi carabinieri per catturare Bernardo Provenzano alla masseria di Mezzo Juso durante un incontro tra Ilardo e Provenzano. Il superiore di Riccio non volle questo e non fece mai nulla per volerlo catturare. Il colonnello dei carabinieri ora in pensione è mio zio. Il gruppo di carabinieri che rimase a Palermo era composto essenzialmente da: il luogotenente dei carabinieri Umberto Bona, il brigadiere dei carabinieri Piseddu, il brigadiere dei carabinieri De Padova, l’assistente capo della polizia Anna Vacchiano e il sottotenente dei carabinieri Pierluigi Stendardo, mio padre.