NON RESTIAMO INDIFFERENTI

Una parte della mia esperienza da universitario fuori sede consiste nel dedicare delle mezze giornate abbondanti seduto su un treno (più di uno per dirla tutta), per viaggiare da Savona a Bologna o viceversa. Nulla da obiettare, ho scelto consapevolmente di trasferirmi per studiare e so che questo fa parte del “pacchetto”, ma spesso il viaggio mi obbliga a fare una tappa di almeno un’ora a Milano Centrale, per cambiare treno e direzione.

È solo una storia tra le milioni di storie che affollano i saloni di quella stazione; chiunque si sia mai trovato lì sa bene che spesso, nella fretta del viaggio, si passa indifferenti lungo le scalinate, l’atrio, si corre al binario sotto le maestose volte di ferro e si prosegue. Troppo di fretta per notare i particolari di quel posto: la sala d’attesa voluta dai Savoia, gli altorilievi dei segni zodiacali all’entrata, i nomi di italiani illustri nel portico d’ingresso, la scritta rimossa ma ancora visibile che ricorda l’anno dell’inaugurazione “nell’era dei fasci”, come era consuetudine durante la dittatura fascista. Passiamo troppo di fretta e finiamo col rimanere indifferenti, anche davanti alle cose più monumentali.

Indifferenza è una parola tremenda. Sotto la stazione, sotto ai binari che ogni anno trasportano decine di milioni di persone, la parola indifferenza è scolpita nel cemento di una parete grigia, a caratteri cubitali. Quello che si vede oltre la parete è la diretta conseguenza di quella parola. Nei sotterranei si trova il Memoriale della Shoah, in quella che negli Anni ’30 era usata come stazione merci, separata da quella passeggeri per non congestionare il traffico, i cui vagoni venivano portati al livello della ferrovia con una serie di ascensori. E che nel punto più buio della Seconda guerra mondiale divenne il luogo di partenza dei treni diretti ai campi di concentramento e sterminio della Germania nazista, su quei vagoni destinati alle merci e alle bestie, al riparo dagli sguardi dei passeggeri e dei milanesi.
È anche il luogo in cui iniziò la parte più atroce della vita della famiglia Segre, di cui la senatrice a vita è l’unica superstite.
Il punto è che prima di arrivare a quei vagoni ci sono stati molti altri episodi, tutti favoriti dall’indifferenza di chi, in fondo, era disposto a digerire le prepotenze dei fascisti, perché magari bastava avere un po’ di pazienza, in fondo “ha fatto anche cose buone”. Anche allora si ripetevano le stesse idiozie.
Agli orrori della Shoah ci si è arrivati un pezzetto alla volta, con un lento logoramento dello Stato e dell’umanità tra le persone: a volte in maniera evidente come con l’omicidio di Matteotti, a volte in maniera subdola, come con il controllo dei programmi scolastici e dei media.

Non volevo lanciarmi in una lezione di storia, però il collegamento con quel periodo è fondamentale, anche nel nostro mondo, 80 anni più tardi. A piccole dosi certe discriminazioni hanno avvelenato il nostro Paese senza che ce ne rendessimo conto, e chi invece condivideva le idee del regime si è sentito sempre più legittimato ad aumentare il carico, a riversare tutta la propria frustrazione sugli individui che il regime stesso gli aveva indicato (le opposizioni, poi i sindacati, poi i giornali, poi le “plutocrazie” straniere, poi gli ebrei). E in questo modo si è arrivati alla situazione paradossale che di fronte alle prime notizie sui campi di concentramento, ben prima dell’inizio della guerra, in Italia ma non solo la reazione è stata <<Impossibile, non possono esistere>>; del resto come potevano comprendere una notizia del genere, dopo anni di annebbiamento?

Potrà sembrare eccessivo, ma in fondo il privilegio di scrivere un editoriale è quello di potersi sbilanciare: questa Giornata della Memoria fa suonare parecchi campanelli d’allarme, anche nel 2024, anche da noi, anche con questo governo e questa classe dirigente. Perché qualche giorno fa pure il Presidente del Senato (seconda carica della Repubblica per importanza), sembra non abbia saputo rompere quel muro grigio sotto la stazione di Milano, visto che non è riuscito ad affermarsi antifascista. Ma anche per tutti quei momenti di piccola e grande prepotenza di chi ci governa, con questa irrefrenabile tentazione di usare le istituzioni come megafono per il proprio partito politico, finendo per governare a nome dei propri commilitoni e non di tutta la popolazione.

Un anno fa una preside di Firenze ha scritto una lettera a seguito di un violento pestaggio avvenuto davanti alla sua scuola: ha detto che una cosa storicamente lontanissima come il fascismo comincia sempre con una serie di piccole violenze, che diventano sempre più grandi finché si sfrutta l’indifferenza, finché nessuno tra i passanti interviene per fermare quel pestaggio. L’antidoto a questo veleno è solo uno, che è anche l’augurio che mi sento di fare per concludere l’editoriale: non restiamo indifferenti.