Il secolo delle apparenze

Un tempo le persone avevano determinati punti di ritrovo, fori o teatri, piazze, che avevano finalità ricreative, di svago oppure di propaganda politica, o più semplicemente era luogo di banali incontri tra amici. Fori, teatri, scuole filosofiche erano le fabbriche di miti, creavano personaggi dalle più alte virtù che la popolazione potesse emulare.

Cambiano i tempi, cambiano i miti: oramai, con l’avvento della televisione che inizialmente era un bene di lusso destinato alle famiglie altolocate e che ora è a portata del 95% della popolazione degli stati industrializzati, mito è diventato sinonimo di famoso e l’industria dello “star system” ha fatto sì che nazioni come gli USA o l’India si arricchissero enormemente grazie alla nascita di veri e propri mercati, come Hollywood e Bollywood.

 

Fra i tempi d’oro del teatro antico e il “trash” odierno televisivo c’è il limbo del cinema che ha avuto per un po’ la reggenza e proiettava ideali attraverso personaggi che diventavano famosi prevalentemente grazie alle loro capacità interpretative (a differenza degli attori moderni che vengono definiti tali solo perché compaiono in uno schermo televisivo, seppur dotati di discutibili competenze) ed erano un minimo ancora indipendenti, non in balia di un finto padre degli Dèi per il quale oggi sei una stella mondiale mentre domani solo un cervo da sacrificare in un banchetto dedicato ad un altro astro nascente.

Questo meccanismo è molto evidente in ambito sportivo, dove i giocatori sono inizialmente degli ignoti che conquistano un nome solo nel momento in cui qualcuno è disposto ad investire su di loro e farli diventare delle star.

I grandi manager stanno anche attenti a scegliere le loro future macchine da soldi tra i ceti meno benestanti, preferibilmente con un background famigliare difficile. Ciò fa sì che vengano toccate le corde giuste dell’opinione pubblica che si identifica più con il calciatore brasiliano a cui è stata data una possibilità di riscatto e redenzione, piuttosto che con il figlio dell’aristocratico londinese che gioca a cricket.

Fioriscono verdoni laddove si unisce la compassione ad un talento sportivo.

I campioni di oggi, inoltre, hanno il potere di far vendere e spesso presenziano a scopo pubblicitario reclamizzando alcuni prodotti con cui spesso non hanno nulla a che fare. L’idea, assurda, è che se anche Alex del Piero beve l’acqua Uliveto, è più facile che questa si venda rispetto alla Sant’Anna; eppure sempre di H2O si tratta.

Ciò che però fa riflettere è la differenza con il passato: se in un’antica epoca greca l’atleta era esempio della “mens sana in corpore sano” ad oggi sono pochi gli sportivi che hanno sia la mens che il corpus integri perché si arriva ad un certo punto in cui la fama non è abbastanza e si pensa che ciò dia loro il diritto di assumere atteggiamenti (e anche sostanze) illegali propri delle tendenze modaiole.

E’ bene però che questi “seguaci del dio Denaro”, come li chiama Ranzini ne “L’Olimpo degli sportivi”, ricordino che l’immortalità è un attributo non ancora perseguibile, ma tuttavia le persone potrebbero ricordarsi di qualcuno che per una volta decide di distaccarsi dal circolo di viziati, abituati ad avere tutto a portata di mano.

Il tutto riporta ancora una volta al serio problema della nostra società piramidale. Si è lottato tanto, con morte di eroi veri, per smantellare lo strapotere delle classi agiate ma il risultato è una struttura che mantiene ancora dei vertici, questa volta non solo detentori di un determinato cognome, ma arricchiti che danno il massimo delle loro scene teatrali sfruttando la televisione come palcoscenico.

Si sta andando via via verso una strumentalizzazione dei personaggi pubblici che prima ancora di essere persone sono interpreti portatori di maschere, che recitano scene a cui forse nemmeno credono, soldati senza scudi e bersagli di un’opinione pubblica e una critica che carica gli archi con frecce intrise di pregiudizi.

Gli eroi moderni, purtroppo, non sono più i miti da emulare ma sono anzi diventati causa di diverse e nette prese di posizione da parte del pubblico che li osserva, non tanto per le loro qualità e virtù intellettuali, quanto per l’apparenza.

Kant usava definire la dialettica come la disciplina dell’apparenza e della parvenza: siamo sicuri di non essere rimasti bloccati in una logica che si fa abbindolare dalle impressioni di ciò che vediamo?