“Odio contro la guerra, maledizioni contro coloro che la benedirono e la esaltarono” 1915/1918. La memoria dell’opposizione alla guerra

        La guerra mondiale del 1914-1918 fu un colossale massacro innescato dalle pressioni nazionalistiche e dalle tendenze imperialistiche coltivate dalle potenze europee. La mattanza coinvolse 28 paesi e vide contrapposte le forze dell’Intesa (Francia, Gran Bretagna, Russia, Italia e loro alleati) e gli Imperi Centrali (AustriaUngheria, Germania e loro alleati). Complessivamente circa 26milioni di persone morirono (metà civili) e 20milioni furono i feriti: persone menomate, disabili e traumatizzati in modo irreversibile. La guerra ebbe inizio ufficialmente un mese dopo l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono d’Austria-Ungheria, e a sua moglie Sofia, in visita nella città di Sarajevo, che caddero sotto i colpi di pistola esplosi dal rivoluzionario bosniaco Gavrilo Princip. Era il 28 luglio 1914.

L’Italia giustificò l’intervento nel conflitto bellico (24 maggio 1915) in nome della sua indipendenza nazionale; furono richiamati alle armi 5milioni200mila uomini e alla fine si contarono 750mila morti: 600mila caduti in combattimento e 150mila fra la popolazione per cause di guerra. Oltre 1milione i feriti (500mila rimasero mutilati o invalidi permanenti) e circa 2milioni gli ammalati per cause belliche. Gli storici hanno segnalato l’impreparazione militare dell’Italia, la scarsità dei rifornimenti e gli errori della logistica, con conseguenti enormi perdite di uomini e mezzi. Per non parlare della disumana “stupidità militare” dimostrata da Cadorna con gli attacchi frontali/suicidi di truppe mal equipaggiate, scarse di artiglieria e mitragliatrici. Un Cadorna che, fra cataste di morti, osservava: «Le sole munizioni che non mi mancano sono gli uomini».

 

Sigmund Freud si confessava “smarrito” di fronte a tanta follia (Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, 1915) e concludeva che l’errore era stato credere in un’Europa civilizzata. Albert Einstein scrisse a Sigmund Freud che a volere la guerra era «un piccolo ma deciso gruppo di coloro che […] vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi, soltanto un’occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare la loro personale autorità». L’industria non produce “armi per le guerre, ma guerre per le armi”. Ma perché una minoranza riesce “ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e da perdere”? Freud rispose che “non c’è speranza di poter sopprimere le tendenze aggressive degli uomini”, e che l’unico modo di opporsi alla guerra è la capacità di far sorgere “legami emotivi” e “solidarietà significative” tra gli individui. Da parte nostra dovremmo, forse, cominciare a seguire il suggerimento del fondatore di Emergency, Gino Strada, che propone di «festeggiare la fine, non l’inizio» della Prima Guerra Mondiale.

La guerra penetrò in tutti i gangli sociali delle nazioni, determinando in particolare l’inasprimento del controllo repressivo statale. L’adesione delle popolazioni alle rispettive politiche nazionali non fu omogenea né continua nel tempo: il 1917 fu l’anno di maggior tensione sociale in molti Stati europei (inclusa l’Italia); in Russia il malcontento popolare si legò ai disastri del fronte e alla determinazione dei rivoluzionari generando la Rivoluzione d’ottobre. Anche in Italia, il rifiuto della guerra ci fu per davvero, prima, durante il conflitto e nella riflessione successiva dei sopravvissuti. I mesi di neutralità, fino all’entrata in guerra nel maggio 1915, furono contraddistinti in tutto il paese da forti mobilitazioni antimilitariste, aspri conflitti sociali, manifestazioni di piazza e comizi per la pace. Le masse operaie e contadine, il mondo cattolico e socialista, erano per la neutralità. Lo storico Gaetano Salvemini, interventista, scrisse anni dopo che la grande maggioranza degli operai e dei contadini, uomini e donne, non volevano la guerra e si sottomisero “poiché un potente meccanismo amministrativo li afferrava e li gettava nella fornace”. Carlo Levi testimonia che gli abitanti di Agliano, il paese lucano del suo confino, avevano subìto la guerra come “una grande disgrazia”.

Nelle memorie dei soldati, poi, non si trova l’epica o la retorica di guerra della propaganda ufficiale, vi si trovano al contrario i “perché” di chi si sente in balia di eventi che non capisce, in un mondo affollato da pidocchi, topi, armi, rovine, caos, brutalità, corpi a pezzi, cadaveri insepolti e sofferenza: il resoconto di un viaggio nei gironi infernali, con offese contro la dignità umana che sembrano non aver mai fine. In questo sterminio di massa dominato dalla tecnologia, in cui uomini e animali sono al servizio di macchine e di complesse organizzazioni industriali, scientifiche e militari, il soldato è un “pezzo della macchina da guerra”, un elemento di una catena di montaggio: “un umile fante contadino la cui qualità è l’obbedienza”  (A. Gibelli), che così tanto piaceva ai vari generali Cadorna e alle celebrazioni ufficiali fino ai nostri giorni.

In realtà, i fanti non furono neppure così obbedienti e remissivi. I tribunali militari istituirono 100.000 processi per renitenza; 60.000 furono i processi ai civili; 340.000 contro militari alle armi (162.563 per diserzione, molte altre per rifiuto all’obbedienza). Il risultato finale fu che almeno un soldato su 12 fu processato; i fucilati dopo regolare processo furono tra i 1000 e i 1500. Più numerosi furono i fucilati direttamente sul campo per disubbidienza agli ordini dei “superiori” o i soldati uccisi in battaglia dal “fuoco amico” al minimo accenno di fuga. Frequenti furono anche le decimazioni, le fucilazioni eseguite per “dare esempio”, per incutere terrore e spronare ad inutili e sanguinosi assalti. E ancora: le condanne a morte emesse in contumacia furono 4.028. Vi furono poi 40.000 condanne con pene superiori ai 7 anni; 15.345 all’ergastolo. I carabinieri, aggregati ad ogni reparto con compiti di polizia militare, stavano in fila dietro i soldati, pronti a sparare su chi non andava all’assalto o si ritirava. Ma anche gli ufficiali e i sottufficiali, potevano sparare a vista sui ribelli, su chi si rifiutava di avanzare verso la morte o su chi ripiegava disordinatamente perché mitragliato dall’esercito nemico. Nonostante tutto continuarono numerose le diserzioni e gli atti di indisciplina: insubordinazione, rifiuto d’obbedienza, ammutinamento e rivolta. Pene severissime, compresa la fucilazione, furono comminate agli autolesionisti i quali addirittura si amputavano gli arti e persino si procuravano la cecità per evitare gli assalti alla baionetta in prima linea. Molti ufficiali di complemento furono processati per lettere denigratorie o disfattismo. Ancora nel 1964 (Festival di Spoleto), la canzone Gorizia  fu ritenuta scandalosa e disfattista, accusata di “vilipendio alle Forze Armate”, poiché una strofa recitava: “traditori signori ufficiali/ questa guerra l’avete voluta/ scannatori di carne venduta/ e rovina della gioventù“.

Dopo la guerra, monumenti, lapidi e targhe tennero in vita la memoria dell’opposizione alla guerra, finché non furono cancellate con la violenza, e definitivamente, dal fascismo. Su una targa in un paese del Mantovano si leggeva: “odio contro la guerra / maledizioni contro coloro / che la benedirono e la esaltarono”. Le denunce nei confronti di chi si era arricchito con la guerra – cioè di quelli che i socialisti chiamavano “i pescecani” – vennero dimenticate.  Rimosso il ricordo delle vittime civili, cancellati gli stupri, che “ebbero un carattere di massa” e furono autorizzati “e incoraggiati dalle gerarchie militari” come strumento di genocidio, il fascismo inaugurò la stagione dei monumenti ai caduti, delle parate militari e della celebrazione delle gesta eroiche dell’italica stirpe guerriera, che avrebbe fatto da preludio all’alleanza con Hitler e all’ingresso del Paese nel secondo conflitto mondiale.

Insomma, fra paura del potente apparato repressivo e rivolta aperta, fra fatalismo e indignazione, le ribellioni aperte e collettive del popolo italiano alla guerra si sommarono ai gesti individuali, combinando in varie forme antimilitarismo e pacifismo, episodi di fraternizzazione al fronte, proteste popolari, nevrosi di guerra, disobbedienza, lettere, diari e canzoni (C. Pedrazzini).

Lettera dal fronte

(…) ormai nessuno a più fiducia nella vittoria tanto cantata, tutti cominciano a comprendere, che non si fa altro che massacrare giovani vite inutilmente, la sfiducia è generale come è generale il sentimento ostile al prolungamento delle ostilità tanto nelle nostre file, come nelle file dell’Esercito Nemico, così si apprende da disertori, che si presentano a noi sovente, ormai quasi tutti sanno, che la colpa e le origini della guerra sono i malvagi Governi democratici borghesi, assecondati dalle barbare mani Militariste, che mirano alla distruzione del libero pensiero per assoggettare i popoli al loro tirannico regime, ed alla demolizione di quelle energie che prima della guerra tenevan quasi tutto in sacco, la loro forza brutale […] Questa lettera la farai leggere a qualche signore interventista che possa farsi chiaro il concetto del nostro pensiero, o del male fatto con l’opera loro. (La lettera, scritta da un fante anonimo, è tratta da La censura di trincea. Il regime postale della Grande Guerra di Alessandro Magnifici).

(Fonti: Wikipepia.org; Treccani.it/enciclopedia; Convegno di studi Tu sei maledetta! Uomini e donne contro la guerra: Italia 1914-1918, Venezia 2015)

A cura di Luca Bellantese (4B)