Oltraggi alla Divina Commedia, ma fatti bene

A volte capita di avere tutte le conoscenze necessarie per cogliere un riferimento letterario in una canzone moderna, ma di non riuscirci al primo ascolto. Quando però ciò avviene, si è pervasi da un’insolita sensazione di piacere letterario, che ci fa immaginare noi stessi nei panni di un vecchio professore di lettere che, seduto su di una vecchia poltrona, accende un sigaro e fa partire il giradischi per riassaporare le prelibatezze musicali celate nei suoi vinili. Poi il sapone ci entra negli occhi, ci risveglia dalla fantasia e ci ritroviamo nella doccia, mentre Alexa continua a pompare la canzone che ha acceso una lampadina nella nostra mente. O almeno questo è quel che è successo a me, e la lampadina che mi si è accesa coincide con l’idea per questo articolo: né più né meno che il racconto di una buffa citazione del canto più tragico dell’inferno dantesco, che se non fosse stata ideata da due delle menti più brillanti del secolo scorso si potrebbe prendere quasi per un oltraggio.


 

Partiamo dunque dal principio: siamo nel canto 33esimo dell’inferno, sul confine fra Antenora e Tolomea si trovano due anime di traditori in una posizione anomala nel ghiaccio: nella stessa fossa, l’uno che fa da cappello all’altro. Si tratta del Conte Ugolino, che aveva tradito il partito ghibellino e che ora è obbligato a rodere il cranio dell’arcivescovo Ruggieri, dal quale è stato tradito a sua volta. Ugolino accetta di raccontare a Dante la sua storia affinché le sue parole cagionino “infamia” al suo traditore, mettendone in luce tutta la crudeltà. Comincia così il monologo più tragico e straziante di tutto l’inferno, nel quale le parole cariche di pathos ci svelano la storia di una morte oltremodo crudele, tanto da far pensare ad alcuni critici che si tratti proprio della “matta bestialitade” di cui Virgilio parlava nel canto 11esimo. Leggiamo che Ruggieri ingannò Ugolino simulando un accordo per poi farlo imprigionare assieme ai suoi quattro figliuoli nella torre della Muda a Pisa, che a seguito di questa vicenda prese il nome di “torre della fame”. Un giorno infatti, dopo aver già passato molti mesi di prigionia, all’ora in cui erano soliti ricevere qualche vivere sentirono invece il rumore della porta che veniva sbarrata col chiavistello. Da quel momento in poi iniziò l’incubo, reso in maniera impeccabile attraverso i versi, e nel giro di sei giorni tutti e quattro i figli si accasciarono uccisi dalla fame ai piedi del padre, l’unico rimasto in vita: “mi diedi, già cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due dì (giorni) li chiamai, poi (dopo) che fur morti. Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno.  

 

Tenete bene a mente l’ultimo verso, che chiude il racconto e lascia spazio a due possibili interpretazioni: la prima è che il digiuno è stato più forte del dolore per la perdita dei figli e abbia fatto morire Ugolino, la seconda, ancora più macabra, è che la fame abbia superato il dolore, costringendolo a cibarsi dei suoi stessi figli.


 

Quasi settecento anni dopo, nel 1962, Paolo Villaggio e Fabrizio de André, entrambi ancora sconosciuti al grande pubblico, si incontrano per collaborare a una sorta di ballata medievale in cui vengano narrate le gesta di Carlo Martello. Villaggio, che ha avuto l’idea, si occupa del testo, de André della melodia. Il risultato è “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers”, una parodia medievaleggiante in cui ci viene presentato il “Re cristiano” (che all’epoca dei fatti era in realtà maggiordomo di palazzo alla corte dei Merovingi) sì reduce da una gloriosa vittoria, ma demitizzato, con gli istinti e le passioni di un uomo qualunque: ma più che del corpo le ferite da Carlo son sentite le bramosie d’amor”. Così, sulla strada del ritorno, il Re scorge una ragazza che fa il bagno in un laghetto, la quale però, non volendo concedersi al cavaliere sconosciuto, esclama prontamente: “ad altra più facile fonte la sete calmate”. Così: “Sorpreso da un dire sì deciso / sentendosi deriso / Re Carlo s’arrestò / ma più dell’onor poté il digiuno / fremente l’elmo bruno / il sire si levò”.

 

Eccolo lì, il verso incriminato! Tutt’altro contesto, tutt’altro significato ma quasi le stesse parole. Il digiuno di Ugolino è dovuto alla fame nel senso stretto, quello di Re Carlo è pur sempre legato alla fame, ma di qualcos’altro… e nemmeno l’onore può trattenerlo dal goderne non appena ne ha l’occasione. Paolo Villaggio quindi prende le dolorose parole del Conte Ugolino e le ripropone nel punto più comico di questa grottesca rilettura storica, rovesciandone completamente il significato e lo scopo. Senza dubbio geniale, ma meglio che il Sommo Poeta non venga a sapere nulla di questa faccenda: da quel che sappiamo ha una certa considerazione di sé e dei suoi versi, non sia mai che si debba offendere!


 

La canzone poi prosegue e le scene successive non sono meno carnevalesche, consiglio caldamente a quei pochi sciagurati che non l’abbiano mai sentita di farlo a questo link https://www.youtube.com/watch?v=5ZFbFyyFICs e lascio anche un link per il canto 33esimo dell’Inferno https://it.m.wikisource.org/wiki/Divina_Commedia/Inferno/Canto_XXXIII