La fine dei Social Network

I social network sono nati per rafforzare le interazioni sociali online, ma dal momento che sono diventati social media il loro scopo ha iniziato a perdersi. E’ bene  chiarire che i social network erano siti web, ove gli utenti potevano creare una rete sociale – come dice appunto il nome – dove condividere interessi comuni, conversare e interagire su specifici argomenti creando una community

All’incirca nel 2009, i social network mutano  in social media, ovvero mezzi di condivisione di contenuti da parte di creator, normali utenti, che portano dei content, ovvero contenuti di vario genere. 

Lentamente e senza clamore, i social media hanno preso il sopravvento. La trasformazione è stata quasi impercettibile, ma ha avuto conseguenze enormi. Invece di facilitare le connessioni esistenti, i media le hanno trasformate in mezzi di comunicazione potenziali. Ognuno può dire qualsiasi cosa a chiunque, ogni volta che vuole. E’ una pessima idea di partenza, legata al concetto stesso di social media!

Tempo fa sul nostro pianeta c’erano tanti social network. Nel 1997 fu lanciato Six Degrees, che aveva preso il nome da un’opera teatrale ispirata ad un esperimento psicologico. Chiuse subito dopo la bolla tecnologica del 2000: il mondo non era ancora pronto. Nel 2002 arrivò Friendster, seguito da MySpace e Linkedin, poi da hi5 e da Facebook, nato nel 2004 per gli studenti universitari. Lo stesso anno nacque  Orkut, realizzato e gestito da Google. Nel 2005 fu il turno di Bebo, poi comprato da Aol. Durarono poco anche Google Buzz e Google+, di cui forse  non ne avete mai sentito parlare, ma che prima della nascita di  Face­book erano incredibilmente diffusi.

Oggi ci si riferisce ai social network come social media, un termine così familiare che ha smesso di avere un significato preciso. Eppure vent’anni fa quest’espressione non esisteva. Molti di questi siti si inserivano all’interno della rivoluzione del cosiddetto web 2.0 dei contenuti generati dagli utenti, offrendo strumenti facili da usare e da sfruttare sui siti e poi sulle applicazioni per i telefoni. Erano concepiti per creare e condividere content, una parola che fino ad allora in inglese significava “contenti”, se pronunciata in modo diverso. Ma all’epoca, e per anni, questi strumenti sono stati definiti social network o, più spesso, servizi di social network (Sns). Il numero di questi servizi cresceva tanto che fu inventato un acronimo divertente: Yasn, cioè “yet another social network”, l’ennesimo social network.

Come suggeriva il nome, i social network implicavano la creazione di connessioni, non la pubblicazione di contenuti. Collegando la propria rete personale di contatti scelti (“legami forti”, come li chiamano i sociologi) alle reti di altre persone (tramite “legami deboli”), si poteva creare una rete più grande di contatti affidabili. L’idea di fondo era il networking: costruire o approfondire i rapporti, soprattutto con persone conosciute. Le modalità e le ragioni di questo approfondimento erano in buona parte lasciate alla discrezione degli utenti.

Intorno al 2009, tra l’introduzione degli smart­phone e il lancio di Instagram, invece di creare legami, i social media hanno offerto la possibilità di pubblicare contenuti che potevano essere visti da un gran numero di persone, ben oltre le reti di contatti diretti. Hanno trasformato tutti in produttori e diffusori di contenuti. I risultati sono stati disastrosi, ma anche piacevoli ed estremamente redditizi: una combinazione catastrofica.

I termini social network e social media sono ormai usati in modo intercambiabile, ma un social network è uno schedario in cui conservare dei contatti, un sistema passivo. Invece i social media sono attivi – anzi, iperattivi – e riversano costantemente contenuti su queste reti.

Twitter, lanciato nel 2006 é stato il primo vero social media. Era una sorta di grande chat room mondiale su cui tutto quello che era pubblicato poteva essere visto istantaneamente da chiunque. I tweet erano brevi e poco impegnativi: era facile pubblicarne molti durante una settimana o perfino in un giorno. E’ un flusso costante di fonti, un distributore automatico di notizie, oltre che una vetrina per i mezzi d’informazione.

Instagram, lanciato nel 2010, potrebbe aver gettato un ponte tra l’epoca dei social network e quella dei social media. Usava infatti le connessioni tra gli utenti come meccanismo per l’attività principale: diffondere contenuti. Facebook ha cominciato a incoraggiare gli utenti a condividere i contenuti pubblicati da altri per aumentare il coinvolgimento sul sito, così come Linkedin. Twitter ha aggiunto la funzione “retweet”, facilitando molto la diffusione virale dei contenuti. In questo senso sono stati creati Reddit, Snapchat e WhatsApp.  Le reti sociali, un tempo strade per raggiungere possibili contatti, sono diventate autostrade di contenuti continui. TikTok è soprattutto un flusso ininterrotto di contenuti video scelti da un algoritmo in cui la connessione non è più l’elemento centrale. Pensate a questo cambiamento: nell’era dei social network, le connessioni erano essenziali perché spingevano a creare contenuti; l’epoca dei social media, invece, punta alle connessioni più esili possibili, quanto basta per far fluire i contenuti.

Per parlare di TikTok, il più dannoso fra tutti, abbiamo come fonte le parole dell’ “influencer” Shelby Renae. La ragazza aveva pubblicato un video normalissimo sul videogioco online Fortnite, pensando fosse divertente e in un giorno ha ottenuto più di 3 milioni di visualizzazioni. A prima vista si sentì una vera e propria celebrità. È proprio lei a parlarci delle conseguenze di TikTok sulle sue giornate: “Ti risucchia le giornate” dice. In cinque anni questa applicazione, un tempo considerata una stupida moda di video di balletti, è diventata uno dei più importanti, discussi, temuti, tecnicamente sofisticati e geopoliticamente problematici giganti di internet. Un fenomeno con un’influenza senza pari sulla cultura e sulla vita quotidiana, che ha fatto persino aumentare le tensioni tra Cina e Stati Uniti. Nel 2021 ha superato il miliardo di utenti. Più di cento milioni solo negli Stati Uniti. L’utente statunitense medio guarda TikTok per ottanta minuti al giorno.

Due terzi degli adolescenti statunitensi usano l’app e uno su sei dice di guardarla “quasi sempre”, come ha rilevato un sondaggio di agosto del Pew research center.  Il tempo che passano su Face­book si è dimezzato. Secondo un rapporto pubblicato quest’anno da Qustodio, un’app che permette di controllare i contenuti visti dai minori, TikTok è il social network più usato dai bambini. Anche se si sta facendo strada tra gli adulti: l’azienda eMarketer prevede che gli iscritti con più di 65 anni aumenteranno di quasi il 15 per cento nel 2022.

TikTok ha stravolto il modello di ciò che può essere un social network. Infatti offre un flusso infinito di video selezionati da un algoritmo capace di apprendere i gusti degli utenti in base a cosa guardano, cosa mettono in pausa o cosa scorrono ogni secondo. Non siete voi a dire a TikTok cosa volete vedere. È lui che ve lo dice. “Non stiamo parlando di un’app di video di balletti”, dice Abbie Richards, una ricercatrice che parla di disinformazione su TikTok, dove ha mezzo milione di follower, “ma di una piattaforma che sta plasmando il modo in cui un’intera generazione impara a conoscere il mondo”. TikTok comincia a studiare gli utenti dall’istante in cui aprono l’app. Gli mostra un singolo video, quindi valuta la loro reazione: un secondo di visione o di esitazione segnala interesse; il passaggio veloce al video successivo suggerisce il desiderio di guardare altro. A ogni dato l’algoritmo di TikTok restringe il campo da una massa informe di contenuti a un flusso raffinato e irresistibile.

L’algoritmo “Per te”, come lo chiama TikTok, costruisce gradualmente un profilo dei gusti degli utenti in base a come si comportano. Mentre per mettere a punto la loro strategia Facebook e altri social network si affidano agli utenti, ai loro interessi o ai personaggi famosi, osserva e impara, cogliendo tendenze e desideri che gli utenti potrebbero non identificare. Il sistema si avvale di un avanzato software di apprendimento automatico, ma per gli utenti il processo è particolarmente semplice. Avviare l’app. Guardare il video. Consumare passivamente.

Parliamo dei danni provocati ai giovani dai media, danni sia culturali che psicologici. Nel primo caso è importante ricordare che il 40% delle informazioni diffuse online sono notizie false – fake news. Molti pubblicano un articolo o un post senza preoccuparsi di verificare che si tratti di una notizia vera, con molta superficialità e in un attimo migliaia di persone l’hanno condivisa e commentata. I ragazzi, soprattutto, che non hanno una piena consapevolezza, apprendono così informazioni errate che possono essere anche pericolose. Nel secondo caso bisogna ricordare che i giovani tendono a  vivere una vita online sostituendo le relazioni sociali con i social network. Si crea una vera e propria dipendenza  che costringe molti a trascorrere i pomeriggi a chattare, messaggiare in delle chat, invece di uscire con gli amici. Tutto ciò provoca difficoltà ad avere rapporti sani con i coetanei, vere amicizie o relazioni affettive. Al di là dello schermo siamo senza imbarazzo ci sentiamo più forti, perché non è una relazione autentica.

Il bullismo sui social si è evoluto in una forma quasi implacabile chiamato cyberbullismo che provoca nei giovani stati di ansia, nervosismo e nei casi più estremi porta al suicidio. I bulli si limitano ad agire in luogo scolastico o comunque in un luogo pubblico, dove i suoi reati possono essere facilmente denunciati ad un adulto o ad un insegnante, mentre il cyberbullismo è più spietato, sul web questo passaggio non esiste, perché un post di insulto ad una persona rimane per sempre e diventa virale. 

Chi subisce questo tipo di violenza non può uscirne facilmente e tende a farla finita una volta per tutte. Nel recente passato si è parlato in modo approfondito e più professionale dell’argomento nella conferenza “Indagare i colossi dei social media dall’interno e dall’esterno” tenutasi a Perugia il 24 aprile 2023, a cui hanno partecipato Isobel Cockrell, una Senior Reporter di Coda Story (un giornale online che tratta argomenti di tipo tecnologico e informatico), Joan Donovan, direttrice del corso di Internet e tecnologia ad Harvard, Mathew Ingram, capo scrittore digitale per la Columbia Journalism, e Aaron Sankin, giornalista investigativo di The Markup. Durante la conferenza si é discusso dei colossi dei social media, confermando ciò che ho riportato in precedenza. Si sono trattati i temi della disinformazione e di come gli informatori, intesi come pagine internet e divulgatori sul web, si stiano “disinformando”; dell’acquisto di Twitter da parte di Elon Mask, che ha scosso la community dell’applicazione, costringendo molti ad abbandonare la piattaforma ed altri ad entrarci con più piacere. 

Però l’argomento padrone dell’incontro è stato la lenta distruzione del significato di social network, un concetto in via di estinzione. Non solo i grandi colossi dell’internet, come li chiamano i giornalisti, stanno peggiorando, ma si portano dietro tutti i loro seguaci e dipendenti. Per questo vengono analizzati dall’interno, come nel caso di Facebook dove 21 mila dipendenti sono stati licenziati per motivi ambigui, e dall’esterno, come nel caso di Twitter che con l’acquisto della piattaforma da parte di Elon Mask si è distrutta tutta una community, lasciando questa grande chat room in balia dei seguaci del nuovo proprietario .

I social network stanno perdendo il loro scopo originario e questo è stato dimostrato, i social media prendono il sopravvento. Il cambiamento è stato lento quasi impercettibile, ma ha  permesso  di ottenere il doppio delle  visualizzazioni e più visualizzazioni hanno assicurato profitti maggiori. L’uso degli algoritmi nei vari social  hanno contribuito a questa trasformazione rendendo  l’utente sempre più passivo e plasmando le sue conoscenze. 

Il web si riempie ogni giorno di notizie false peggiorando la cultura e a subire i danni maggiori saranno  soprattutto i giovani. Fonti utilizzate: articoli “La fine dei social network” – Ian Bogost e “Come TikTok ha rovinato la rete” – Drew Harwell presenti nel numero 1490 del settimanale geopolitico Internazionale.