La verità tra neve, gelo e vento

 

La spedizione al K2 del 1954 è stata un’impresa alpinistica patrocinata dal Club Alpino Italiano (CAI) che portò il 31 agosto del medesimo anno, per la prima volta nella storia, al raggiungimento della vetta del K2, la seconda montagna più alta al mondo. Divenne una delle più famose, venne fatta una sola scalata, ma si fecero strada ben due verità differenti su di essa.

La spedizione era costituita complessivamente da 30 componenti: 13 erano alpinisti italiani, due di questi erano i più famosi dell’epoca: Walter Bonatti, il più giovane della spedizione e Achille Compagnoni, che giungerà in vetta. Le loro strade si separeranno nel corso della salita, per non riavvicinarsi più, a causa delle diverse versioni sulle vicende, che solo il gelido vento e la neve di quella montagna potevano sapere.

Gli alpinisti Achille Compagnoni e Lino Lacedelli seguirono la via denominata “Sperone degli Abruzzi”, che permise loro di arrivare in vetta, a quota 8611 m. Quello che molti non sanno è che un contributo fondamentale fu dato da Walter Bonatti e da Amir Mahdi, portatore d’alta quota pakistano, che con un’impresa senza precedenti affrontarono un bivacco notturno all’aperto, ad oltre 8100 metri, per trasportare a Compagnoni e a Lacedelli le bombole di ossigeno, essenziali per il compimento della spedizione.

Le operazioni per l’organizzazione della spedizione, l’allestimento dei campi base e il trasporto dei materiali e dell’attrezzatura iniziarono a fine maggio del 1954. Il 29 luglio, i 9 campi erano montati, anche se il nono non verrà posto nel punto prestabilito. Al secondo tentativo, Compagnoni e Lacedelli lo montarono in un punto più basso rispetto a quello concordato, dopo aver abbandonato il loro carico di bombole di ossigeno a circa 8100 metri. Il compito di recuperarle spettò a Bonatti e a Mahdi, che nel frattempo, dopo alcuni imprevisti dovuti alle condizioni meteo critiche e al mal di montagna, avevano montato i campi precedenti.

Il 30 luglio Bonatti e Mahdi recuperarono le bombole e raggiunsero il punto dove in teoria doveva essere montato il nono campo, il penultimo prima della vetta. I due riuscirono a comunicare a voce con Compagnoni e Lacedelli che risposero di seguire le tracce; dopo pochi altri scambi di parole, i quattro alpinisti non riuscirono più a comunicare per diverse ore, eterne, se vissute in quelle condizioni di gelo.

Bonatti e Mahdi a questo punto, continuarono a salire in cerca del nono campo, ma non riuscirono a raggiungerlo prima dell’arrivo dell’oscurità, in quando si ritrovarono a dover scalare molti più metri di ghiaccio di quelli che si aspettavano. Quando arrivò il buio i due si trovavano a circa 8100 m, su un ripido pendio di ghiaccio sotto una parete rocciosa non riuscendo né a scendere e né a salire in assenza di luce. Dopo molti tentativi riuscirono a farsi sentire da Lacedelli, che si trovava con Compagnoni nel decimo campo, l’ultimo prima della vetta. Bonatti individuò il loro campo, troppo pericoloso da raggiungere perché situato al di là di un canale di ghiaccio. Lacedelli disse loro di lasciare le bombole e di scendere, Bonatti gli gridò che non potevano, perché Mahdi non era in grado, stava male. Lacedelli, probabilmente non sentendo queste ultime frasi, tornò nella sua tenda, convinto che i due alpinisti si stessero preparando per la discesa. Sfortunatamente non fu così: Bonatti e Mahdi passarono la notte fra il 30 e il 31 luglio all’aperto, su uno scalino scavato nella neve con le piccozze, largo non più di sessanta centimetri. Affrontarono un bivacco notturno, senza tenda e sacchi a pelo, a -50°C, nella cosiddetta “zona della morte”, travolti da una bufera che si scatenerà nella notte. Mahdi andrà incontro a uno stato confusionale e Bonatti passerà l’intera notte trattenendolo, in modo da non farlo scivolare nel canalone.

Alle primissime luci dell’alba del 31 luglio, Mahdi cominciò a scendere, dopo aver riportato gravi congelamenti alle mani e ai piedi. Bonatti gli consigliò di aspettare almeno il sorgere completo del sole, ma lui non ne volle sapere. Scenderà prima di Bonatti e raggiungerà l’ottavo campo in mattinata, dove dopo poche ore arriverà anche lui.

Nel frattempo, Compagnoni e Lacedelli, raggiunsero il bivacco Bonatti-Mahdi, recuperarono le bombole di ossigeno, che sfrutteranno completamente durante la successiva ascesa verso la vetta. Alle 18 del 31 luglio del 1954, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, raggiunsero la vetta della K2, piantando con la piccozza la bandiera italiana e pakistana. Si toglieranno i guanti per scattarsi vicendevolmente alcune foto e questo procurerà loro gravi congelamenti alle mani. Dopo poco, cominceranno la discesa, riuscendo a raggiungere l’ottavo campo prima dell’oscurità e si lasceranno travolgere dai festeggiamenti.

La notizia in Italia arriverà il 3 agosto del 1954 e da quel momento inizierà una di quelle battaglie che il mondo dell’alpinismo italiano non si scorderà facilmente. Il “Caso K2” fa riferimento a tutte le polemiche riguardanti gli eventi svoltisi tra il 30 e il 31 luglio 1954, nella zona compresa fra l’ottavo campo e la vetta del K2. La diatriba si concentra su alcune rilevanti discrepanze fra la relazione ufficiale del CAI e la versione dei fatti raccontata da Walter Bonatti nei suoi libri.

Subito dopo il ritorno trionfale degli alpinisti in Italia, il CAI adottò come versione ufficiale degli eventi accaduti sui campi avanzati quella raccontata da Achille Compagnoni. Walter Bonatti notò subito alcune discrepanze fra i racconti e gli eventi che lui veramente aveva vissuto. Nella pubblicazione del CAI, si riferiva che Compagnoni e Lacedelli avevano chiamato molte volte Bonatti, ma lui aveva risposto con parecchio ritardo; Bonatti e Mahdi, però, riferivano il contrario. La quota del bivacco dove i due avevano trascorso la notte, veniva indicata di due centinaia di metri più in basso rispetto a dove veramente si erano fermati. Se fossero stati veramente così in basso, non avrebbero avuto problemi a scendere al campo, senza sostare nella “zona della morte” e rischiare di morire per ipotermia.

Altre discrepanze erano relative agli orari: Compagnoni e Lacedelli sostenevano di essere partiti dalla tenda all’alba, verso le 4.00, e di aver recuperato le bombole per le 6.00, differentemente da quanto sosteneva Bonatti il quale diceva di aver abbandonato il bivacco alle 6.00 e di averlo avuto in vista almeno fino alle 7.00, senza avvistare nessuno. Riferiva anche di aver udito durante la propria discesa un richiamo e, pur non vedendo nessuno, aver agitato la piccozza in segno di saluto. Compagnoni e Lacedelli confermarono di aver avvistato un uomo che scendeva e, essendo stupiti visto che non sapevano nulla del bivacco, risposero al saluto, però riconobbero l’alpinista come Mahdi e non Bonatti.

Un altro particolare molto rilevante, ma anche molto poco chiaro, riguardava l’uso dell’ossigeno. Compagnoni affermava di aver esaurito le bombole verso le 16.00, quando con Lacedelli, si trovavano a quota 8400, circa 200 metri sotto la vetta.

Tutte queste discrepanze non ebbero seguito in quel periodo, anzi, furono quasi nascoste. Il CAI, non volendo alimentare le polemiche che avrebbero rovinato l’immagine della spedizione, “suggerì” a tutti i partecipanti, ma soprattutto a Bonatti, di firmare un contratto che impediva loro di fare ogni tipo di dichiarazione sulla spedizione, per addirittura alcuni anni.

La vicenda delle due diverse versioni riuscì a rimanere nell’ombra fino al 1964. Bonatti nel 1961 aveva pubblicato la sua autobiografia “Le mie montagne”, in cui ricostruiva gli eventi del K2, evidenziando il pomeriggio del 30 luglio, la notte passata bivaccando e sottolineando il comportamento di Compagnoni e Lacedelli. Nel 1964 sulla “Nuova Gazzetta del Popolo” furono pubblicate pesanti accuse contro Bonatti. Veniva accusato di aver tentato di raggiungere la vetta con Mahdi, sovrastando Compagnoni e Lacedelli, e per questo di averli privati dell’ossigeno a loro destinato, usandolo lui stesso per un’ora durante il bivacco. In questo modo avrebbe sottratto la quantità di ossigeno necessaria ai colleghi per raggiungere la vetta. Una volta che il piano “diabolico” di Bonatti fallì, lui avrebbe abbandonato Mahdi al bivacco, la mattina del 31, scendendo all’ottavo campo senza curarsi di lui.

A seguito di questi articoli, Bonatti fece causa per diffamazione al giornalista che aveva pubblicato le accuse. La prima accusa venne contestata affermando che Bonatti, alpinista esperto, non avrebbe mai pianificato volontariamente un bivacco in quelle condizioni, durante il quale avrebbe avuto poche possibilità di sopravvivenza. Si fece notare che anche lo stesso Compagnoni affermò che, una volta giunto il buio, sarebbe stato estremamente pericoloso per Bonatti e Mahdi tentare di raggiungere il campo, e che quindi il fatto di non averlo raggiunto non poteva essere volontario. A proposito dell’uso delle bombole di ossigeno, si fece notare che per utilizzarle, erano necessari erogatori e maschere, in possesso solamente di Compagnoni e Lacedelli, di conseguenza, Bonatti non avrebbe potuto usufruire delle bombole. Inoltre i tempi di durata delle bombole indicati da Compagnoni, coincidevano con quelli indicati per le bombole a piena efficienza. Per l’ultima accusa bastò la testimonianza di altri due alpinisti presenti all’ottavo campo che videro arrivare prima Mahdi che Bonatti, che quindi non avrebbe mai potuto abbandonarlo.

Walter Bonatti vinse il processo e negli anni a venire pubblicò dei libri sul caso del K2 e sulla verità che, dopo tanti anni, riuscì a non appartenere più solamente al vento e alla neve di quelle giornate a 8611 metri di altitudine, ma anche al resto del mondo.

Lo svolgimento della spedizione sembrava chiarito, fino al 1994, quando la relazione ufficiale fu messa in discussione un’altra volta, da Robert Marshall, australiano appassionato di alpinismo. Mostrò le prime foto scattate in vetta, mai pubblicate in Italia. Ritraevano Compagnoni mentre si toglieva i guanti, con la maschera dell’ossigeno sul volto, ancora collegata alle bombole. In un’altra foto si vedeva Lacedelli con intorno alla bocca la brina tipica di chi ha respirato da poco in una maschera ad ossigeno. Marshall concluse che i due alpinisti avevano respirato l’ossigeno fino in vetta, notando che una volta esauritosi, le bombole e le maschere avrebbero solamente ostacolato la respirazione.

Compagnoni e Lacedelli si difesero affermando che l’uso delle maschere d’ossigeno fino in vetta, sarebbe stato come uno stratagemma per proteggere le vie respiratore dal freddo. Giustificarono il trasporto delle bombole, anche se vuote affermando che le manovre per liberarsene sarebbero state troppo pericolose.

La situazione iniziò a complicarsi ulteriormente quando Bonatti confermò la versione di Marshall.

Durante queste fasi della vicenda, il Club Alpino Italiano si astenne dall’intervenire, preferendo non prendere alcuna posizione ufficiale, come già fece dal 1954 e negli anni successivi. Nel 1969 il CAI si rifiutò di pubblicare un capitolo intero dei libri di Bonatti in cui descriveva completamente la spedizione, probabilmente per paura della verità, come ipotizzò l’alpinista. Soltanto nel 1994 il CAI considerò nella loro interezza i documenti relativi alla storia del K2. Venne pubblicato su “La rivista del CAI” un articolo che confermava la versione di Bonatti, riconoscendone il contributo fondamentale alla riuscita della spedizione. Lacedelli ammise che piazzarono volontariamente il campo più in alto del punto concordato, anche se scaricò tutte le responsabilità di questa scelta a Compagnoni. Bonatti non volle considerare conclusa la faccenda, nonostante i riconoscimenti ottenuti: a suo avviso la vicenda presentava ancora diverse ambiguità sul tempo e luogo in cui si era esaurito l’ossigeno.

Solo nel 2004 vi fu l’ultima revisione della vicenda, quando fu condotto uno studio approfondito e completo sui documenti. Questo diede origine a una relazione pubblicata il 30 aprile 2004 sulla stampa sociale del CAI. Sarà l’ultima, definitiva, sudatissima, relazione ufficiale. Si giunse alla conclusione che l’ossigeno era stato utilizzato da Compagnoni e Lacedelli fino in vetta. Le testimonianze e i documenti confermavano le indicazioni di Bonatti sui luoghi del nono campo, del bivacco e sugli orari. La versione di Bonatti fu dichiarata finalmente come l’unica verità. Lui non cercò di sovrastare Compagnoni e Lacedelli, non abbandonò Mahdi e non usò neanche le bombole d’ossigeno destinate agli altri due alpinisti.

Ci vollero “solamente” 50 anni per far sì che tutto il mondo conoscesse le vere vicende svoltesi sul K2. La magnificenza della spedizione e dell’impresa compiuta era stata scavalcata dal “Caso K2”, che venne portato avanti, tra accuse, false verità e molte contraddizioni. Nel 2004, finalmente, la verità non apparteneva più solamente a Walter Bonatti, alla neve, al gelo e al vento.