Il mio “J’Accuse” alla scuola (e non solo)

 

Arrivato quasi al termine della mia esperienza da liceale, posso finalmente condividere le mie impressioni e la visione personale che sono riuscito a catturare in questi anni. Oppure posso togliermi qualche sassolino dalla scarpa, se ci volete vedere della malizia. In realtà il mio intento è denunciare a chiare lettere alcuni aspetti della nostra scuola – quella italiana nel suo complesso – e stimolare un cambiamento, quindi non me ne vogliano i vari generali francesi se scriverò un “j’accuse” contro di loro.

Che cosa non va nel nostro sistema? È una domanda sulla quale gli esperti si arrovellano da molto tempo, ma io voglio proporre un approccio molto empirico: guardiamo cosa sta succedendo in questo periodo, senza fare i perbenisti ma analizzando con un po’ di lucidità le decisioni prese negli ultimi mesi. La nostra didattica a distanza è cominciata il 24 febbraio 2020; interruzione momentanea delle lezioni prima, videolezioni poi, ci siamo abituati forzatamente a questo nuovo metodo e così abbiamo proseguito (e concluso) l’anno scolastico. Troppo plateale sarebbe stato il fallimento se non fossimo ritornati in presenza a settembre, e così dopo un’estate passata all’insegna della normalità e in barba alla pandemia abbiamo ripreso in presenza, con tutta una serie di regole. Ora, sull’operato del Governo del nostro Paese si possono dire molte cose (non è il caso che mi dilunghi anche in accuse contro di esso in questo articolo), tuttavia di fronte al lavoro della scienza, dei comitati di ricerca e delle statistiche, è difficile controbattere: aprire le scuole in “sicurezza” è possibile. Richiede parecchi sforzi, però.

E allora ci siamo trovati di fronte ad una decisione complicata: fermare le attività o fermare le scuole? Richiamando l’approccio “lucido” di cui ho parlato prima si può dire che la decisione sia stata presa, e che la priorità sia stata data a tutto fuorchè alle scuole. Questo ci porta alla notizia recente di scioperi da parte di studenti e insegnanti, che giustamente reclamano il ruolo da protagonista dell’istruzione all’interno della vita del Paese, e che ora si trova praticamente dietro le quinte, o al massimo fa da scenografia muta accanto al resto dello spettacolo.

Una qualsiasi altra categoria di lavoratori, se fosse stata ignorata così pesantemente dalle istituzioni per 12 mesi filati, si sarebbe già riversata dinanzi a Montecitorio a protestare giorno e notte (questo non vi porti a pensare a bizzarri tentativi di golpe come quello da poco avvenuto negli Stati Uniti). Dai bar ai residenti dei piccoli comuni, dai gestori di rifugi alpini ai florovivaisti, passando per manifattura, industria, turismo, agenzie viaggi, crociere, persino cacciatori amatoriali (!!) …Tutti hanno voluto mettere sul tavolo le loro condizioni di “ristoro” per la crisi che hanno subito. E la scuola? Perchè 9 milioni di studenti non hanno lasciato il loro personale scontrino in attesa di riscuotere come tutti gli altri? Per rispondere dobbiamo spostare il problema all’interno della scuola stessa, rivolgendo la domanda proprio ai 9 milioni di studenti: perchè noi ragazzi accettiamo questa situazione paradossale, questa “DAD” o “DDI” che dir si voglia, pur facendo ogni santo giorno esperienza dei suoi giganteschi limiti? Non c’è risposta logica a questo, se non una: ci conviene così.

Costa fatica ammetterlo, ma da casa è infinitamente più facile cavarsela in caso di domande, interrogazioni, verifiche e test di vario tipo. E allora si alzano le spalle, si tira un sospiro, si attaccano i post-it alle estremità del monitor (fuori dall’inquadratura di eventuali videocamere) e si accende il pc, pronti per un’altra giornata in cui quello che davvero conta è galleggiare.

 Ma prima che il mondo si scagli contro gli studenti, che, vale la pena ricordarlo, nella mia metafora del “j’accuse” sono proprio l’ufficiale Dreyfus, l’innocente capro espiatorio sacrificato perchè faceva comodo, vorrei porre un nuovo obiettivo alla nostra analisi. Perchè mai uno studente dovrebbe arrivare a pensare “Meglio una DAD dalla sufficienza facile che una presenza piena di verifiche senza scappatoie”? Come accidenti è possibile che ad influenzarci sia quel ridicolo metro di giudizio in scala decimale, per altro vecchio di 100 anni (non scordiamoci che l’impianto su cui si basa il nostro “fare scuola” richiama ancora la Legge Gentile e le sue modifiche, annata 1923)? Se la scuola è davvero questo, una scintilla di empatia per gli studenti che sarebbero pronti ad affermare la frase di prima (“La DAD è conveniente”) sorge spontanea.

 Scagionati – almeno in parte – gli studenti, veniamo ai docenti. Iniziamo servendoci di una delle metafore più famose della storia, citazione di Plutarco: “I giovani non sono anfore da riempire, ma fiammiferi da accendere”. Il messaggio, sia esso rivolto ai rètori dell’antica Roma oppure ai nostri prof, è lampante: il nozionismo non è l’insegnamento che serve ai ragazzi. Con lo studio fine a se stesso si pongono a malapena le basi, figuriamoci utilizzarlo per valutare il 100% della formazione della mente di un adolescente. Eppure lo studio nozionistico è quello che meglio si presta al metodo dei voti decimali: “Dimmi quali sono gli imperatori della dinastia Giulio-claudia”, “Dimmi quando sono state scritte le Lyrical Ballads degli inglesi Coleridge e Wordsworth”, “Riporta tutti i tratti distintivi dell’arte paleocristiana”, “Descrivi tutti i dettagli dell’apparato digerente”…E così via fino alla fine della quinta liceo.

 Avendo avuto la faccia tosta di prendere in prestito il titolo dell’articolo e la metafora su cui ho basato la mia narrazione dal grande Emile Zola, adesso bisogna avere il coraggio di arrivare alla fine della nostra analisi e di inserire la chiave per il cambiamento. E questa chiave sta nell’incontro tra studenti e docenti in quanto persone, e non più in senso “scolastico” (secondo quel senso di scuola che ho descritto). Per essere ancora più sintetici, la scuola deve avere il suo fulcro nell’Attimo Fuggente, e il professore a cui ispirarsi deve essere John Keating (interpretato dal mito Robin Williams). Film del genere, e professori del genere (esistono e non sono soli, questo è bene che venga detto) ci aprono una visione completamente inedita: possiamo formarci non solo come studenti, ma come esseri umani. “Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento, ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita”.

Uno studio metodico, basato su nozioni fini a se stesse insomma, è obbligatorio e anzi non si potrebbe costruire nulla senza porre una base del genere; il resto però richiama ad un rapporto completamente diverso, al collegamento di queste nozioni, al superamento dei muri di cemento che le singole materie ci impongono. In fondo è questo l’intento che disperatamente si cerca di trasmettere con l’esame di maturità, in particolare nella prova orale: dimostrare che tutto è collegato, che un’analisi matematica ne può scatenare una filosofica e poi una letteraria e poi ancora una storica, con il risultato che gli adulti, e non più i ragazzi, escono dal sistema-scuola con la capacità di ammirare la complessità del nostro mondo, dall’universo sterminato alle particelle subatomiche che ci compongono, fino a capire i movimenti del proprio animo.

 Un modello del genere porterebbe ad un azzeramento volontario di quell’antico divario che separa il docente dallo studente, quella formalità rituale che rende i rapporti più freddi e distaccati. Ovvio che si mantengano sempre alcuni paletti dettati dall’educazione e dal rispetto, come pure quel sentimento di noi ragazzi che ci porta a vedere i prof come modelli per il nostro futuro e ad avere un’empatia profonda con alcuni di loro. Cambierebbe però il rapporto lavorativo, senza più bisogno del bombardamento per raccattare voti perchè il sistema, guardacaso, anche quest’anno non ha funzionato e le caselle Excel fremono in attesa di essere riempite dai famigerati numeri. C’è un altro modo di fare scuola, un modo che valorizzerebbe ogni singolo ragazzo nel suo percorso, ma non mettendolo dentro a tabelle di credito formativo e facendo la media aritmetica. È un metodo diverso, innovativo, per molti tra i docenti forse pure inutile e improduttivo, ma è il vero cambiamento che il nostro sistema aspetta da 100 anni e che, alla luce della pandemia, non possiamo più permetterci di rinviare.