La stanza

Mi sono ritrovata catapultata nella sua stanza. Non era molto grande, ma era accogliente: la luce la inondava e, insieme ai colori pastello dei muri e dei mobili, la faceva risultare ancora più luminosa di quanto già non fosse. Anche se non era particolarmente ordinata era un ambiente rilassante. Avrebbe tranquillamente potuto ospitare una lezione di meditazione, ma sapevo molto bene che il secondo dopo avrebbe anche potuto ospitare una festa, una di quelle parecchio scatenate.

Le finestre si affacciavano su una spiaggia dorata. Spesso lei si svegliava quando era ancora buio e tutti dormivano, per poter vedere l’alba all’orizzonte. Sosteneva che quella fosse la prova che il paradiso esiste, che ci viviamo ogni giorno.

Il rumore e l’odore dell’oceano che penetravano dall’esterno ti facevano sentire protetta, in un altro mondo. Ad accentuare la sensazione che lì dentro fosse sempre estate, c’era un pezzo di paraffina, il quale diffondeva un persistente odore di cocco, che si mischiava con quello delle onde. Avrei voluto poterlo catturare in una boccetta per usarlo come profumo.

In un angolo c’era uno stereo acceso che riproduceva l’ultimo album della sua band preferita. Il volume era al minimo, ma scommetterei che di solito la manopola è girata al massimo. Mi sono fermata un attimo per riconoscere la canzone: anche se quel disco era appena uscito, doveva essere già stato ascoltato parecchie volte, perché in alcuni punti era rovinato. Probabilmente lei trovava che questo dettaglio, anziché essere un difetto, rendesse la canzone ancora più bella.

Sulla scrivania c’erano lettere sparse che provenivano dai suoi amici. Non so come, ma lei aveva molti amici di penna provenienti da ogni angolo del pianeta, con cui si scriveva regolarmente. Anche i suoi amici con cui usciva tutti i pomeriggi le mandavano delle lettere, le adorava. Oltre alle lettere erano presenti tutti i suoi ultimi progetti: canzoni, poesie, libri, racconti vari e anche vecchie riviste. Sembrava che quei fogli sparsi non c’entrassero nulla l’uno con l’altro, ma ero certa che ci fosse un nesso, un senso, forse nessuno riusciva a vederlo, ma lei sì.

Sulle pareti erano attaccate decine di polaroid provenienti dai suoi viaggi, o che ritraevano lei e i suoi amici, o ancora l’oceano. Attaccato lì vicino c’era anche un telefono, già vintage all’epoca. Quasi tutti si stavano convertendo ai primi cellulari, ma a lei piaceva sdraiarsi sul pavimento per ore mentre telefonava alle sue amiche.

L’armadio era ricolmo di magliette colorate, pantaloncini e costumi, come se fosse sempre in spiaggia. Nascosto in un angolo c’era un vecchio zaino di scuola ormai distrutto, sembrava che non lo toccasse da anni, diceva che c’erano tanti altri modi di imparare.

Sul letto ancora sfatto dalla mattina giaceva un ukulele e un foglio con il testo e gli accordi della sua, o meglio della nostra, canzone preferita. Ho ripreso in mano lo strumento, ho cominciato a suonare da dove mi ero interrotta, ho aperto gli occhi e mi sono ritrovata nella mia camera grigia.

Erano le cinque di pomeriggio, ma era già buio pesto. L’unico rumore che si sentiva era quello del traffico e l’unico odore presente era quello di chiuso. Al posto dello stereo c’era una piccola radio moderna che trasmetteva pubblicità, il telefono fisso aveva lasciato spazio allo smartphone, le lettere ad anonimi messaggi. L’album che stava ascoltando era uscito trent’anni prima. Invece delle polaroid c’era una cornice digitale; l’ultima volta che avevo avuto bisogno della paraffina era stato due anni prima e la scrivania era ricoperta di libri di scuola e di compiti da finire.

La scuola era il motivo per cui nella cornice digitale vedevo sempre le stesse quattro foto. I progetti c’erano ancora, insieme alla paraffina e ai vecchi dischi, ma erano in un angolo dell’armadio ricoperti di polvere, a volte mi dimenticavo persino della loro esistenza. L’ultima volta che li avevo tirati fuori era quando si aveva ancora tempo per le proprie passioni e per i propri progetti, non solo per quelli degli altri.

Fino a una certa età non fanno che ripeterti che sognare è una cosa bella, di inseguirli, i sogni che si fanno. Con un urlo silenzioso mi sono domandata: “Quando è cambiato tutto?”. Ho ripreso in mano l’ultima pagina incompleta del mio libro: ricordo ancora i sogni di una piccola lettrice che passava le sere con una penna in mano.

Ho contemplato il foglio di carta impregnato d’inchiostro e per un attimo ho pensato di finire quella storia, poi ho guardato la pila di compiti. Sono tornata a guardare quella singola pagina con uno sguardo pieno di apatia. L’ho appallottolata e l’ho buttata nel cestino, andando a studiare. In fondo un diploma è più importante di un sogno, almeno per il mondo.